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Milano riparte da una radio-stazione

di Thomas Mackinson

Niente treni che sferragliano, fermi anche i tram, lampioni spenti. Almeno una volta la frenetica città delle fabbriche e degli uffici si è fermata. Pochi lo sanno, nessuno lo direbbe. Era il 13 luglio 1951. Alle 5:30 del mattino su Milano si abbatté una tempesta come non si era mai vista: fulmini che cadevano ovunque terrorizzando i passanti, paralizzando le strade. Viste conseguenze, le cronache dell’epoca furono meticolose nel ricostruire quella notte. “Per il danneggiamento degli impianti – raccontò il Corriere della Sera – è rimasta interrotta l’alimentazione delle linee Varesine, da Rho a Porta Nuova e tutta la cintura periferica che ad anello collega i vari scali”. L’epicentro indicato dalle autorità fu poi individuato in via Tofane, precisamente alla “sottostazione elettrica della Martesana” delle Ferrovie dello Stato che all’improvviso aveva smesso di alimentare la rete di cui era il centro vitale distribuendo essa l’energia che alimenta il sistema di trasporto. Per rimettere la corrente ci vorranno più di quattro ora e per tre giorni il quotidiano cittadino racconterà l’odissea patita da migliaia di lavoratori e viaggiatori rimasti bloccati nell’impossibilità di raggiungere o uscire da Milano. Una storia che si è persa. Per i successivi 50 anni l’edificio che tutto sembrava reggere è rimasto abbandonato, lasciato all’incuria al punto da non reggere più neppure sé stesso. Quasi che perdendo la sua funzione tecnica essenziale avesse perso anche la sua storia e il suo diritto alle cure. Ecco, mi sono ficcato in questo pasticcio anche perché quel luogo possa averne un’altra.

Sono un giornalista professionista, milanese di nascita e di lavoro. Spesso ho raccontato il peggio della nostra società: dai privilegi della politica e alle deprivazioni della gente comune, ai grandi scandali del nostro tempo. Ho fatto inchieste sull’uranio impoverito, l’amianto mai debellato, gli eccessi della burocrazia, la giustizia ingiusta, la sanità malata in tempo di Covid e via dicendo. Ogni tanto mi fermo a pensare se lo sforzo di raccogliere notizie e raccontare storie per offrire punti di vista nuovi contribuisca davvero a cambiare le cose. Spesso, ma vale per tanti del mestiere più bravi di me, prevalgono la disillusione e l’inquietudine di non fare affatto la differenza ma di perpetuare racconti al fondo uguali e saturi di un senso d’impotenza e rassegnazione pervasivi. Che posso mai fare? Quando Maurizio Guagnetti, amico e collega di lunga data, mi ha parlato di Stazione Radio e del progetto di ristrutturare un edificio abbandonato da decenni ho detto: “ok Maurizio, sei impazzito”. Poi ci sono andato per capire. L’edificio in questione è dietro la Stazione Centrale di Milano, appena varcati i triplici arconi dei viadotti ferroviari del Naviglio della Martesana che da lì prosegue. La porta di ferro sigilla un costrutto di tre piani evidentemente non comune all’origine ma reso anonimo dall’incuria da non avere neppure un numero civico sulla porta. Graffiti di quelli brutti deturpavano la sua originaria linearità. Varcata la soglia non era Milano, non era lo splendido naviglio che scorre accanto. Non c’era il fascino dell’architettura industriale impreziosito fuori da sei aperture tonde dalla funzione incerta. Un salto spazio-temporale ci ha trasferiti in un comando abbandonato di Khabul, tra cumuli di macerie a terra, finestre e porte murate nel tentativo vano di contenere vandali e senza tetto, rifiuti ovunque, polvere, vetri.

Eppure era proprio lei, la sottostazione che una notte da lupi di 71 anni fa spegnendosi spense tutta Milano. Solo spogliata della sua storia, pietrificata nel tempo e dimenticata dalla città per un qualche oscuro sortilegio degli uomini. Al piano superiore la luce delle poche vetrate intatte restituisce agli occhi quella che mancava del tutto al piano terra. Il silenzio si spezza col passare dei treni tutt’attorno. Quel posto che abita il passato può essere davvero strappato al suo oblio e avere un futuro? E se sì, per farne cosa? Ne parliamo per mesi: cicloturismo sostenibile, non basta. Un ostello per biciclettari con audioguida, fuochino. Diamine, siamo giornalisti. Così, mentre parte un masochistico progetto di recupero edilizio finiamo per mettere in fila tutto quel che potrebbe avere un senso avendo a disposizione uno spazio così suggestivo e ampio in uno degli scorci più belli di Milano e ancora la voglia di contribuire concretamente a migliorare il piccolo mondo in cui siamo calati. Vengono molte idee da quelle finestre, osservando dall’alto la gente che passeggia lungo il corso d’acqua, le bici che sfrecciano, i passeggini che si moltiplicano. Quel pezzo di via Tofane senza un civico può guadagnarselo tornando ad essere il centro di una rete che non ha condensatori e distributori di cariche ma di energie umane. Da indirizzare nell’unico senso possibile per chi come noi non è vecchio abbastanza da smettere di sognare né così giovane da ignorare del tutto che c’è un lascito possibile cui possiamo (dobbiamo?) lavorare, per tentare di arricchire anche di un centimetro quel moto collettivo verso nuove conoscenze, valori comuni, obiettivi universali più lontani. Così, le energie che partiranno dalla ex sottostazione saranno orientate a promuovere in tutti i modi possibili la cultura della sostenibilità. A riempire con un luogo e attività concrete una formula azzeccata quanto spogliata di forza per l’abuso che se ne fa. Quel luogo può, ad esempio, ospitare momenti di confronto sul tema che indirizza oggi le politiche di tutte le società evolute. Può diventare un laboratorio per il racconto di esperienze, testimonianze, progetti tramite le forme evolute della comunicazione digitale e i podcast. Insomma, può diventare tante cose. Il mio augurio è che diventi un luogo fisico e virtuale frequentato e ascoltato da tanti. Senza che debba arrivare un altro fulmine per accorgersi che esiste e che tiene in piedi molte cose.

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